Leonardo

Fascicolo 8


Esposizione a Venezia
di Adolfo de Karolis
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I

   La Critica.
   Non sono parte di un lavoro critico queste poche parole, di una critica come oggi, dopo l'invenzione delle mostre o fiere di arte, s'intende comunemente; non vuol'essere, tanto più che si può allegare io essere omo sanza lettere.
   La critica delle esposizioni si fa in molte e varie maniere: per esempio, alcuni s'impongono un tema, lo svolgono e ne traggono le conclusioni. Dicono; «L'Arte deve essere nella vita» oppure: «L'Arte deve essere vera» (Vita? Verità?) allora si diventa capo de' Laudesi per cantare ed esaltare alle stelle quelle opere che rispondono, o sembrano, al principio stabilito; poi da queste man mano si discende a quelle che tentennano con auguri di ravvedimento, e infine si abbattono o si tacciono le altre. Altri dicono, e ottengono il maggior favore; «La critica deve essere oggettiva» o pure «deve essere popolare, deve far opera utile, qualche cosa che sta tra la guida e il catalogo;» e allora tutto il frasario appreso nelle discussioni artistiche viene ammanito a beneficio della stupidità umana.
   C'è poi chi difende L'arte nova, chi il divisionismo, chi segue una corrente novissima e chi un'altra; insomma tutti hanno bisogno di appare questa o quella massa, di esaltare o abbassare questa o quella maniera. Infine un'orda innumerevole di mediocri, intristiti dalla loro impotenza, spandono simili all'anfesibene, il duplice veleno; infine mille interessi nascosti o palesi si agitano nel turbine dell'esposizione, in specie quando si debbono elargire centomila lire.
   Tutte queste ciancie non possono essere se non vane o al più (e forse oggi è molto importante) avere un interesse commerciale; esse non servono ne all'Arte nè all'artista. È poi molto facile fare di quegli studi completi a base di notizie sul tempo o sul maestro, sul luogo o sulle influenze e sulle derivazioni con date precise e con documenti; ormai s'è sazi di tanto sapere storico.
   L'artista, di cui parla Leonardo, che è consapevole del suo valore, e «del quale l'opera è superata dal giudizio» non desidera intermediari; egli giudica sè medesimo e gli altri serenamente, ne può comprendere mai quel che intorno si dice per innalzarlo o ingiurarlo, e non deve chè si perderebbe. Dietro aí suggerimenti alcuni tentarono di rappresentare le cose consigliate; opere che soddisfacessero coloro che desideravano o l'idea umanitaria, o il pensiero, o la modernità. Vane condiscendenze, che il critico di ieri oggi s'è ravveduto e consiglia altra meta.
   Nessun'anima di critico può palpitare all'unisono con l'anima dell'artista. Non si è dunque compreso che il lavoro del critico, come quello dell'artista, deve essere una creazione personale?
   «Artifex oppositus artifici» dice G. A. Borgese. L'opera d'Arte racchiude nel suo cerchio e nelle sue linee la potenza di creare bei pensieri, di suggerire, di ispirare, di suscitar sogni, di continuare in qualche modo l'idea spesso a pena disvelata. Forse la colpa non è della critica ma degli artisti, forse l'arte delle esposizioni non merita una corona di belle parole e di bei pensieri. C'è qualcuno che oggi in una delle nostre rumorose esposizioni osi gridare : «O critico, o poeta mostra il tuo ramo fiorito?»
   Le mie parole.
   Queste mie poche parole, dicevo, non aspirano ad essere una critica, esse fanno parte di un mio edificio che io non amo aprire a tutti; queste mie idee sono parte del mio mondo drento cui m'aggiro in certo modo che parrà strano agli stranieri: per questo non m'illudo sul valore che potranno avere dì fronte agli altri. Se alcuno dicesse che la mia strada è cattiva e me ne additasse un'altra io potrei rispondere che per la mia strada vo bene e che l'inganno non è mio ma di chi consiglia, chè la mia strada solitaria gli è sconosciuta, e nessuno può sapere s'è cattiva come nessuno può dirmi che è attossicata la sorgente a cui sempre mi disseto. Trovandomi dinnanzi alle opere molti pensieri latenti e nuovi son sorti e si sono fissati nella mente; così l'esposizione è servita a ordinare, a incitare, ad essere un pretesto per dire alcunchè di mio.
   La festa dell'Arte.
   Dovrebbe essere una festa questa che non avesse nulla di comune con le infinite cerimonie ufficiali alle quali assistiamo ogni giorno.
   Si è detto che l'Arte è lo specchio limpido del mondo, il mondo contemplato con occhi infantili. Immaginiamo una riunione di uomini ai quali nei momenti favorevoli la creazione sia apparsa come glorioso arcobaleno, ai quali si è sollevato il velo della vita; guardiamo nei loro occhi limpidi che hanno imagito il mondo come in chiaro specchio; pensiamo alle loro anime che hanno palpitato con l'anima universa, alla meraviglia di una qualche subita apparizione miracolosa che li ha lasciati quasi semivivi.
   Quali saranno le loro parole? Forse rade e rivelatrici; forse avranno le voci soavi, i sorrisi e gli atti dei fanciulli che al vederli si direbbe; «O costor non saranno dalla morte vinti, o ella gli ucciderà lieti.»
   Noi pensiamo in questa Festa dell'arte di trovarci prossimi a qualche anima fraterna e comunicare con essa; crediamo all'illusione di versare parte della nostra anima in un'altra che comprende, di ricevere doni e ricambiarli, di arricchirci scambievolmente la vita e di raccontarci qualche bel sogno recente. Eccoci dunque sotto i rami di uno stesso albero, venuti da lontano, raccolti per nostra volontà, in festa.
   L'artista ama rifugiarsi in luogo lontano dallo strepito del volgo, l'opera d'Arte ama il raccoglimento e il silenzio. Non è forse la falsità della festa


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che ci disgusta all'apertura dell'esposizione? È questo soffio mondano che raffredda gli animi, rattrista il convegno e cì rende estranei l'un altro. Non si potrebbe trovare più cattiva preparazione per gli animi ad una contemplazione serena.
   L'Esposizione.
   Tutte le volte che ho visitato le esposizioni veneziane la prima impressione è stata penosa. Forse sono andato con troppa confidenza; forse il contrasto con la città è troppo grande; forse il cammino, le acque, un'immagine ancor viva e dominatrice inclinano troppo al sogno. E trovarsi dinnanzi a quell'edificio, entrare in quella rotonda così addobbata, sostare in quel salone dinanzi alle più grandi tele (ricordate negli scorsi anni quelle di Hodler, di Solomon, di Carriere, di Hierl - Doronco e adesso quella dì Repin) ci sí sente soffocare come in un'aria grave, ed è necessario ritornare verso l'aria pura e vincere il desiderio di correre lontano per godere quella luce e per inebriarsene, e di esser presi da quelle acque morte, che dan la vertigine come quelle precipiti di una gora, e di correre laggiù lontano per approdare in un isola silenziosa.
   V'è là dentro l'alito della vita comune; vi si trovano gli uomini con le loro piccole gioie, i loro gracili amori e le loro meschine aspirazioni, con le bestemmie, le miserie, gli odii, tutta quella vita che l'artista fugge.
   L'Esposizione è lo specchio del tempo, è solamente passeggera effimera oppure aspira a sforzare a rinnovare il suo tempo? Non voglio ripetere il lamento d'essere nato in tempo tristo, chè l'artista anche nella presente volgarità può crearsi la propria favola bella. E non voglio che mi si tenga per avversario dell'esposizione, specialmente oggi, che dopo un fatto recente io debbo difenderla e additarle una via un po' diversa da quella tenuta sin qui. Quest'anno, dopo le esclusioni, abbiamo assistito ad un movimento che chiamerei di solidarietà, qualche cosa che somiglia la lega e annunzia lo sciopero. Come gli operai gli artisti si uniscono, fanno assemblee, promuovono agitazioni, minacciano il boycottaggio. Anche qui ci troviamo dinanzi alla debolezza e all'impotenza che cerca la forza nel numero, e non farebbe meraviglia vedere i futuri ordinatori delle mostre scendere a patti colle organizzate masse degli artisti. Avremo allora maggiori successi ma l'Arte non potrà che perderci, l'esposizione scenderà tanto in basso da confondersi con tutte le altre inutili cose della nostra vita moderna.
   E siccome ora mi è parso vedere qualche segno di debolezza (e la sala dei rifiutati è il maggiore) io vorrei che per l'avvenire fosse molto minore il numero delle opere e più severa la scelta.
   A Venezia tanto l'edificio quanto l'ordinamento sanno troppo della loro origine, sanno delle idee di dieci anni or sono. L'edificio dovrebbe esser rinnovato e la costruzione non dovrebbe essere così enorme ed informe ma ordinata e divisa perchè la decorazione, che sempre più tenta a ritrovar sè stessa, avesse campo di svolgersi non solo all'interno ma all'esterno; i saloni aboliti per dar luogo a piccole camere; le sale dovrebbero essere isolate con luoghi di sosta e di riposo, giardini, terrazze, atrii ecc.; la luce non dovrebbe piover sempre dall'alto, le sculture non dovrebbero essere sempre chiuse. All'Artista deve affidarsi la collocazione della propria opera nello spazio a lui destinato, nè mai gli si deve imporre la vicinanza o legarlo con leggi che siano contrarie alla sua natura, egli deve isolarsi o unirsi a coloro verso i quali si sente attratto.
   Le opere non devono essere scelte dalla giuria ma tutte invitate (e dico le opere e non gli artisti) e ciascuno deve lavorare intorno alla sua opera in modo che tutti debbono cooperare all'ordinamento della mostra sotto la guida di un Direttore, che sarebbe per un dato tempo il creatore dell' Esposizione, il quale dovrebbe orientare la sua concezione a certi bisogni, direi urgenti, dell'Arte, come monumenti, decorazioni, architetture, oggetti ornamentali ecc., in modo cha tutto quello che è necessario non sole in Italia ma in Europa fosse studiato e risolto nell'Esposizione. Il campo sarebbe vastissimo. Così vedremmo, per esempio, il Sacconi e il d'Annunzio trovare i tentativi e le preparazioni uno per la decorazione del monumento a V. E., l'altro per la costruzione del teatro d'Albano.
   Questo io pensavo il giorno dell'inaugurazione isolandomi nel rumore mentre uscivo dal Palazzo e mi avviavo, per i Giardini, verso la Riva. Erano in fila pel viale donne veneziane con le ricche corone di lor-capelli flessuosi ondulati come i flutti del mare: gli occhi glauchi di una di esse mi attrassero e mi presero totalmente; la costruzione ideale scomparve svanì laggiù verso l'estuario; la bellezza del mondo sembrava prendermi e profondarmi in quell'oblio che invano avevo cercato poc'anzi.
   Venezia.
   Sotto il cielo primaverile, navigato da nuvoloni opalini che sembravano chiudere un fuoco veemente, stava la Città bella; e quel candore di perle e di viole specchiavasi nelle acque, circonfondeva tutte le immagini quasi elleno fossero fuse in un cristallo purissimo. Tenera come i grappoli non ancora dischiusi delle glicini, che inghirlandano gli orti, fresca e tenera come le fogliette pur mò nate, appariva Venezia, molle di rugiada e monda, cinta di corone verdi e adorna d'ametiste, tutta bella per donarsi al Dio primaverile. Così splendeva nel mattino quasi fanciulla a pena desta dal suo sogno infantile....
   Ma un'altra volta Ella ci apparirà ricca di uno splendore miracoloso traboccante, esalante tutti i suoi cromati, adorna di porpora ed oro, sarà per noi la tremenda tentatrice.
   Una sera, sulle fondamenta di S. Maria Formosa, dopo la lunga contemplazione dinanzi a quel cerchio magico che chiude S. Barbara, un volo e un canto di rondoni così in accordo con la mia anima mi parvero tanto significativi che ne fui beato come dinanzi a una rivelazione improvvisa.
   Ogni cosa era nell'ombra intorno e nel silenzio, il rumore della vita cittadina giungeva fievole come il suono interrotto che reca il vento: solo, altissimo, veemente era il canto aereo, e la mia anima, ancora tenuta dall'incanto della divina immagine e dall'ebrezza, parve trascendere l'angusta chiostra, attingere quella luce e palpitare canora, mentre il coro aereo delle campane si propava sulla città divina e riempiva i cieli.


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